Di Emanuele Scarci

Nell’anno del covid la grande distribuzione salva le aziende del caseario. Nei primi 9 mesi del 2020 le vendite di latte, burro, formaggio e yogurt sugli scaffali italiani sono balzate dell'8,4%. Il peso della distribuzione moderna per il caseario è fondamentale: veicola il 70% dei volumi e il restante 30% imbocca la via dell’estero, in parte destinato al retailing.

Nell’intero 2019 il fatturato complessivo del settore caseario è stato di 16,3 miliardi, di cui circa 13 miliardi commercializzati in Italia e il resto all’estero.

Il caseario è un business a valore aggiunto per produttori e retailer ma negli ultimi 20 anni, stante la stagnazione dei consumi in Italia, le esportazioni sono schizzate da 867 milioni a 3,1 miliardi. In particolare, esportiamo un prodotto di qualità, infatti l’import di formaggio ha un valore medio di 3,5/4 euro al kg mentre l’export raggiunge i 7 euro.

“La performance della grande distribuzione nel 2020 è stata fondamentale nell’anno del virus - osserva Paolo Zanetti, presidente di Assolatte e vicepresidente di Federalimentare -. ma non è stata sufficiente a compensare il crollo del food service. Tuttavia in un anno così difficile va segnalato il ritorno alla crescita, dopo tanti anni, del latte fresco (+12%) e dell’Uht (+10%). Finalmente si riconosce che latte e formaggi sono prodotti sani e sicuri”.

A conti fatti la Gdo ha agito da paracadute.

No. L’export caseario vale “solo” il 30% dei volumi mentre la crisi del canale Horeca, che in Italia assorbiva il 30% dei formaggi, pregiudica ancora oggi la sopravvivenza delle imprese concentrate su questo canale. Quelle invece impegnate nell’export verso Usa e Giappone stanno subendo le conseguenze di dazi pesantissimi che sembravano potessero ulteriormente appesantirsi.

In estate i prezzi dei principali formaggi, Parmigiano reggiano e Grana padano, sono crollati. In piena pandemia i produttori hanno esagerato a spingere la produzione sui massimi storici?

Ci sono state luci e ombre. Questi formaggi di punta hanno performato nella distribuzione moderna ma hanno subìto, la scorsa estate, un forte calo delle quotazioni. Poi però si sono riprese e ora le quotazioni sono ritornate su livelli vicini a quelli del 2019.

Come vede l’anno appena iniziato?

Temo che fino a primavera inoltrata ci sarà da soffrire ancora. Il food service funzionerà a intermittenza, se va bene. Spero che la grande distribuzione continui a trainare le vendite, anche se il saldo finale continuerà a essere negativo. Sul fronte estero, l’elezione di Biden negli Usa è una buona premessa per risolvere il contenzioso sui dazi incrociati con l’Unione europea. Ammesso che questo nodo si sciolga, rimane da risolvere quello del mercato russo, precluso da anni. In generale, bisognerà mettersi l’elmetto e girare le fiere di tutto il mondo, specie nei Paesi dove abbiamo perso posizioni.

Quindi meno vendite e costi più elevati. Assolatte però ha firmato il rinnovo del contratto di lavoro, contro le indicazioni di Federalimentare.

Abbiamo resistito fino alla fine, poi abbiamo dovuto firmare. La situazione generata dalla seconda ondata pandemica era tale che non si potevano esporre troppo le aziende. Per me rimane una ferita, ma alla fine, il contratto collettivo è solo una parentesi e una parte del grande lavoro svolto da Federalimentare.

Lei che è vicepresidente di Federalimentare, cosa vede in agenda?

Ci sono almeno un paio di ostacoli molto pericolosi: per esempio contrastare insidie come il Nutriscore e il Farm to fork. Su quest’ultimo siamo alle bozze, ma non è accettabile che entro il 2025 l’Unione europea imponga un quarto della produzione di biologico e la riduzione delle emissioni in tempi strettissimi.