di Maria Teresa Giannini

Ventisette anni di storia e un claim decisamente iconico: dal 1995 Müller Italia si è fatta largo nel mercato dello yogurt nel nostro Paese, prima in punta di piedi, osservando l’opera dei competitor e imparando dai loro errori, poi schiacciando l’acceleratore, aumentando le varietà e creando nuovi prodotti. Partendo da Verona, la sede italiana di Müller, holding che ha una storia di 126 anni e un fatturato di 7 miliardi di euro (di cui 4,3 da prodotti lattiero caseari), ha conquistato poi tutta la Penisola con i suoi gusti e con la sua narrazione dello yogurt, come racconta Sergio Attisani, managing director di Müller Italia che a maggio ha sostituito Manfred Weiss. Da dieci anni a questa parte Attisani è il primo italiano a ricoprire questo incarico, segno di grande fiducia verso il team italiano e visti i risultati di Müller Italia.

Müller nasce in Baviera, ma negli anni si è spinta su prodotti diversi dallo yogurt di fattura centroeuropea, come il kefir e lo yogurt greco: semplice voglia di rincorrere un trend, o desiderio di mettersi alla prova su altre ricette?

In Italia vendiamo il nostro prodotto a circa 13 milioni di famiglie, più del 50% del totale dei consumatori di yogurt (fonte: Panel Consumer NielsenIQ). Sentiamo perciò il dovere di non allontanarci dal nostro Dna, poiché sarebbe come tradire la fiducia che ci ha portati dove siamo. Certo, abbiamo sempre un occhio ai trend del momento. I nostri clienti tipo sono cambiati, oggi sono più attenti a uno stile di vita equilibrato senza rinunciare a concedersi qualche piccolo piacere: per esempio i Mini, l’ultimo prodotto lanciato, intercettano la tendenza degli ultimi anni di consumatori che richiedono un alimento appetitoso, ma in porzioni inferiori. Si tratta del primo prodotto Müller che si mangia con le mani e non con il cucchiaino e risponde alle esigenze più moderne di frazionamento dei pasti. Era un’idea che aleggiava già nelle nostre stanze, ma la pandemia ne ha accelerato lo sviluppo.

L’immagine di Müller è accostata allo yogurt per eccellenza, eppure avete anche una divisione (Naturafarm) tutta dedicata alla scelta e al trattamento della frutta. Come mai finora non avete imboccato la via dei preparati di frutta, come le confetture?

La frutta è un elemento importantissimo in gran parte dei nostri prodotti, ma tale elemento viene concepito come un valore aggiunto dello yogurt. Il core business del Gruppo Müller resta il settore lattiero-caseario, con 5,4 milioni di tonnellate di latte lavorato.

Quanto è importante, per voi, il mercato italiano?

L’Italia è sicuramente strategica ed è il terzo Paese per volume d’affari dopo la Germania (dove siamo leader di mercato per lo yogurt bicompartimento), e la Gran Bretagna. Müller Italia rappresenta il 15% delle quote a volume sulla categoria; persino nei dessert proteici freschi, in un solo anno dall’ingresso in questo mercato, Müller ha costruito, nel nostro Paese, una quota del 24,2% a volume (fonte Iri – a.t. giugno 2022).

Qual è il prodotto più amato in Italia, fra le varie tipologie di yogurt?

I prodotti a cui i clienti sono più affezionati sono quelli “iconici” di Müller, ossia i mix, lo yogurt intero con pezzi di frutta e lo yogurt bianco intero. Se dovessi stilare una classifica, direi che il primo per vendite è il mix, in tutte le sue varianti, ma in particolare quello con gli anelli di cioccolato. Seguono lo yogurt intero con pezzi di frutta, che con la sua dolcezza intercetta una platea davvero vasta (dai bambini agli anziani); ultimo, ma sempre fra i best seller, il bianco intero.

I vostri stabilimenti producono anche per le private label?

Si, una piccola parte della nostra produzione è destinata a questo segmento, in tutta Europa, soprattutto con riferimento a prodotti specifici venduti nei discount. È un fenomen molto diffuso all’estero, ma ultimamente, anche in Italia, c’è stata una svolta.

Com’è che un’azienda tedesca concepisce un claim con un esplicito richiamo alla sensualità del cibo, come “fate l’amore con il sapore”?

“Fate l’amore con il sapore” è nato in Italia, dall’intuizione del nostro primo direttore generale, Pietro Rognini. Müller è una multinazionale particolare, in cui le varie sedi nazionali al di fuori della casa madre hanno una propria indipendenza nell’attuare le ricette, le strategie commerciali, e il posizionamento più adatto per il Paese in cui si trovano. I packaging, fra Italia e Germania, sono diversi e persino i Müller Mix in Italia contengono cereali diversi. In Germania, per esempio, ci sono versioni che contengono anche prodotti locali, come i micro-biscottini allo zenzero.

Lei è managing director Italia dal 2022, ma è praticamente cresciuto in Müller, dove è entrato 20 anni fa, diventando direttore commerciale nel 2015: qual è il ritratto che fa dell’azienda? In quale ambito o in quali scelte aziendali sente di aver dato un contributo decisivo finora?

Prima di entrare in Müller lavoravo come consulente esterno in un’altra azienda: se ho deciso di entrare è perché sono sempre stato un accanito consumatore dei suoi prodotti e poi perché ero ammirato dal loro modo di lavorare. Il grosso valore aggiunto di Müller è la capacità di creare team affiatati, in cui ognuno è valorizzato per le sue competenze. Quando l’azienda è arrivata in Italia, negli anni Novanta, il mercato era molto meno inflazionato, ma si trovava a fronteggiare giganti come Danone: dovevamo invertire le regole del gioco. Non era pensabile batterli subito sulla distribuzione, ma potevamo contare sulla distribuzione dei clienti: non avevamo 300 codici ma 50 con alta rotazione, cosa che ha aiutato la nostra penetrazione di mercato. Potrei dire che, in questo, si è visto il mio contributo, ma le grandi cose si fanno insieme e farei un torto a tutto il grande lavoro di squadra, nella fase del confronto fra le idee e l’attuazione, che c’è dietro alle strategie commerciali di Müller.

Cosa vede all’orizzonte, a livello strategico?

Prevediamo un forte sviluppo per i prodotti proteici e i Mini, che veicolano un nuovo “modello” di yogurt, più pratico da mangiare e più facile per i momenti di condivisione, che durante le prime fasi della pandemia abbiamo bruscamente interrotto e che ora ricerchiamo.