La protezione della privacy al tempo di Internet è una questione tra le più discusse. Attualmente al centro del dibattito ci sono soprattutto alcuni algoritmi non trasparenti che riescono a registrare, mentre navighiamo, i nostri gusti, l’ammontare dei nostri acquisti, la nostra disponibilità a pagare una data cifra per un certo prodotto. Il tutto per fissare, da individuo a individuo e da Paese e Paese, prezzi ‘personalizzati’ o, per meglio dire, discriminatori.

La problematica è talmente vasta che ha coinvolto, come riportato lo scorso 30 dicembre in un articolo di Carola Frediani, pubblicato sul quotidiano ‘La Stampa’, organismi del calibro dello European Consumer Centres Network, il Consiglio e il Parlamento europeo, la Casa Bianca.

Due docenti, di Oxford e dell’Università del Tennessee, Arial Ezrachi e Maurice E. Stucke hanno dedicato alla questione un volume di 368 pagine, edito da Harvard University Press: ‘Virtual competition. The promise and perils of the algorithm-driven economy’.

Questo, se ce ne fosse bisogno, sottolinea come Internet abbia molti lati oscuri e consenta, anche, di giocare contro le regole. E se invece è lo stesso consumatore a cedere spontaneamente notizie su sé stesso? In realtà un numero crescente di persone sembra disposto a condividere i propri dati personali con brand e retailer, purché venga offerto qualcosa in cambio: servizi, promozioni, ma anche un’esperienza di acquisto più rapida e personalizzata. Perché la profilazione, se condotta in modo corretto, porta a un’elevata personalizzazione del servizio e dunque a vantaggi concreti.

Un’indagine internazionale di Gfk che ha coinvolto, durante l’estate, oltre 22.000 persone di 17 Paesi (Argentina, Australia, Belgio, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, Italia, Giappone, Messico, Paesi Bassi, Russia, Corea del Sud, Spagna, Gran Bretagna e Stati Uniti), rivela che circa un quarto degli intervistati (27%) si è dichiarato d’accordo con la possibilità di identificarsi. Per contro, il 19% è totalmente contrario.

Le risposte degli italiani si collocano leggermente al di sopra della media internazionale: il 28% è disponibile, sempre a fronte di un piccolo premio. La percentuale non varia tra uomini e donne, mentre emerge chiaramente come i più favorevoli alla condivisione siano i trentenni (32%), seguiti dalle fasce d’età 20-29 anni (31%) e 40-49 anni (30%). Contrari, invece, gli over 60, con il 24%, mentre a sorpresa i più giovani sono quelli che esprimono le maggiori perplessità: dai 15 ai 19 anni ben il 31% si nega.

Lo studio ha messo in luce anche le differenze tra i Paesi. La Cina ha la quota più alta (38%) di persone disposte a condividere i dati personali. Più favorevoli della media anche messicani (30%), russi (29%) e, appunto, italiani. All’opposto le cinque nazioni più riservate sono Germania (40%), Francia (37), Brasile (34), Canada (31) e Paesi Bassi (30).

L’età dell’intervistato sembra influenzare, anche sullo scacchiere mondiale, la facilità con cui si accetta questa forma di identificazione. Ventenni e trentenni sono in assoluto i più propensi: nella fascia 30-39 anni i favorevoli sono il 34%, mentre nel gruppo 20-29 anni il 33% è d’accordo. Però, diversamente da quanto succede in Italia, sul piano internazionale gli adolescenti (15-19 anni) sono abbastanza favorevoli (28%)a tale opportunità.

Non emergono infine, ancora una volta, diversità tra i due sessi: la quota di chi è d’accordo resta ferma al 27 per cento. Tra le donne è però più alta la percentuale di chi si dichiara fortemente in disaccordo (21%, contro il 18% degli uomini).


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