Non c’è solo la Brexit a turbare il sonno degli imprenditori agroindustriali italiani, in particolare di quelli che oggi esportano circa 3,6 miliardi di euro di prodotti finiti e macchine per il food nel mercato britannico. I negoziati per gli accordi di libero scambio (Ceta, Ttip) sono al palo, il commercio internazionale sta rallentando, mentre sale la pressione da parte di competitor globali e cambiano le abitudini e gli stili dei consumatori.

Osservazioni allarmanti quelle che emergono da Agrifood Monitor (www.agrifoodmonitor.com), la nuova piattaforma realizzata da Nomisma e Crif e presentata il 12 luglio, con l’obiettivo di condensare le fonti di settore più autorevoli, per offrire alle nostre imprese una bussola esauriente e aggiornata, oltre a benchmark di facile lettura a supporto dello sviluppo.

Dopo il piccolo recupero dei consumi sul mercato interno (+1,1%) avvenuto nel 2015, i primi 5 mesi del 2016 evidenziano – secondo i dati Nielsen - un nuovo stallo del food (-0,2%). Anche sul piano internazionale il primo trimestre mostra una crescita del nostro export agroalimentare di appena l’1,7%, troppo poco se si vuole arrivare al fatidico traguardo dei 50 miliardi di euro entro il 2020.

A pesare sono, in larga parte, le problematiche strutturali che connotano il nostro sistema agroindustriale (dal nanismo delle imprese ai gap infrastrutturali del Paese, alla mancanza di catene della Gdo italiana oltre confine) e che in parte spiegano perché, per esempio, la propensione all’export degli imprenditori tedeschi sia pari al 33% contro il 23% dei nostri connazionali.

Dobbiamo affrettare il passo, investendo maggiormente su mercati a più alto tasso di crescita economica, come quelli asiatici: le nostre stime ci dicono infatti che, con lo scenario economico attuale, rischiamo di raggiungere l’obiettivo dei 50 miliardi solo nel 2024”, ammonisce Andrea Goldstein, managing director di Nomisma.

Sebbene nell’ultimo decennio l’incidenza si sia ridotta per le nostre esportazioni, il mercato europeo continua a pesare per il 63% nel caso dei generi alimentari, per il 57% nel comparto macchine agricole e per il 35% in riferimento ai macchinari per il food&beverage. “Dobbiamo aumentare la nostra presenza nei bacini extra-europei, dove oggi le nostre vendite pesano meno della metà di quelle francesi, o addirittura un ottavo di quelle statunitensi - ribadisce Goldstein -. Possiamo farcela solo riuscendo a combinare la buona reputazione che i nostri prodotti vantano in giro per il mondo con strutture aziendali che promuovano la crescita accelerata”.

La conferma arriva da un sondaggio svolto sui consumatori degli Emirati Arabi Uniti, un mercato dove la quota degli italiani è ancora inferiore al 3% delle importazioni food complessive, ma dove il reddito pro capite dovrebbe passare dagli attuali 40.000 dollari a oltre 53.000 in 10 anni.

“Gli Emirati sono una porta su tutta l’Asia sud-occidentale, che apre grandi prospettive e non solo in vista di Expo Dubai 2020. Ma la qualità non basta, se non si costruiscono rapporti commerciali e finanziari sicuri”, spiega Marco Preti, ceo di Cribis D&B.

L’andamento del credito all’export erogato alle imprese della filiera agrifood conferma la crescente internazionalizzazione del settore: da un 16% di imprese che utilizzavano finanziamenti nel 2013, si è arrivati oggi al 41%.

E il credito è davvero fondamentale, visto che, con 2 milioni di imprese, 3,8 milioni di addetti, 130 miliardi di euro di valore aggiunto e 47 miliardi di export, la filiera agroindustriale italiana – dai campi agli scaffali considerando anche la meccanica – è un settore chiave per l’economia nazionale, con potenzialità competitive, però, ancora inespresse.