L’allarme ora suona insistente da chi ne riceve un danno, ma sono decenni che i consumi di vino, birra, liquori e distillati in Italia si contraggono nonostante si sia da più parti lamentato un andamento in preoccupante controtendenza per quanto riguarda il segmento giovanile.

La discesa del vino è stata lenta e inesorabile, con due accelerazioni, la seconda delle quali, legata al giro di vite sui controlli stradali, ha coinvolto tutte le bevande alcoliche, compresa la birra che ha annullato la crescita tornando al livello di tre anni fa.

I numeri, nella loro crudezza, sono i seguenti. Il vino, che nei primi anni ’70 si trovava su un consumo pro-capite di 110 litri, ora è sotto i 40. E la birra, che nell’ultima dozzina d’anni era faticosamente riuscita a ridurre il grande divario che la separava pure da paesi latini come Spagna e Francia, negli ultimi due ha perso molto, il 10% circa, sprofondando a 28 litri pro-capite, addirittura sotto il livello del 2000.

Per la precisione bionde, rosse e brune, made in Italy e d’importazione, nel 2007 avevano raggiunto il picco storico con 31,1 litri pro-capite. Quel che è successo dopo è noto: crisi economica e nuove regole sulla circolazione stradale, unite all’irrigidimento dei controlli in risposta ai gravi incidenti che insanguinavano i week end, hanno messo il freno a mano sui consumi. È anche vero, tuttavia, che da un lungo periodo già s’assisteva a un radicale cambiamento del costume alimentare che vedeva gli individui orientarsi sempre più verso uno stile di vita moderato. Il che ha finito per favorire lo sviluppo degli altri segmenti del bere, in particolare quello delle acque minerali. I non più giovanissimi ricorderanno che a ideare una bottiglia di minerale di prestigio, per i ristoranti di alto livello, già nella seconda metà degli anni ’80, furono i fratelli Lunelli che dalla loro rete vendita fecero distribuire accanto allo spumante Ferrari l’acqua Surgiva .

Il fenomeno della riduzione dei consumi d’alcol, almeno a livello europeo, è del resto abbastanza omogeneo. Sono pochi i paesi che li hanno visti crescere e comunque sostanzialmente di birra si deve parlare perché dove aumenta il vino si tratta di situazioni che partono da livelli molto bassi, incapaci di compensare le forti riduzioni dei paesi storicamente “alto consumanti” come Italia e Francia.

Anzi c’è da notare che proprio la Francia, una volta molto avanti rispetto all’Italia anche nei consumi di birra, ha camminato all’indietro pure in questo segmento scendendo in una decina d’anni dai 40 litri pro-capite a 28, come da noi. Il Regno Unito ha visto invece ridursi i consumi di birra da 100 nel 2002 a 75 nel 2009, mentre la Svezia, tra i pochi, è salita da 55 a 65 nello stesso periodo e la Romania ha messo a segno un incremento sorprendente, da 53 a 103 secondo i dati forniti da Assobirra .

A fotografare meglio il ridimensionamento del consumo d’alcol in Italia, nonostante i problemi attinenti la sicurezza stradale e comportamentale in alcuni contesti sociali, è comunque il dato complessivo, quello che viene elaborato estrapolando la componente alcolica da tutte le bevande consumate. Concentrati in alcol puro, i consumi italiani pro-capite sono dunque scesi dai 12 litri del 1977, quando whisky, brandy, vermouth e amari andavano alla grande, ai soli 6 di oggi, per un consumo individuale circoscritto ai soli superalcolici di 0,7 litri. Certo, compresi bambini, anziani e astemi.

E quindi che cosa potrà accadere in futuro? Gli osservatori più autorevoli, capaci di confrontare il presente con il passato per stabilire le corrette analogie, ritengono che il mercato non possa che dirigersi verso una continua ricerca della qualità, volgendo i difetti in pregi. Com’è accaduto in seguito alla prima accelerazione della caduta dei consumi subita dal vino negli anni ’80, cioè quella indotta dallo scandalo del metanolo: i produttori più capaci optarono per un miglioramento del prodotto, impegnandosi in costose operazioni di riconversione che hanno permesso il raggiungimento di risultati molto brillanti. Basta vedere che cosa sono diventate le aziende vinicole, trasformate spesso in santuari del buon bere. Naturalmente con prezzi ben diversi dei precedenti, quando il vino si acquistava prevalentemente in damigiana, sfuso, senza che chi lo produceva “ci mettesse la faccia”.

Su questo grava tuttavia l’incognita della crisi perché la qualità appunto costa e il consumatore deve avere il reddito necessario per pagarla e sostenerla. Altrimenti si rischiano passi indietro, o che come tali possono essere interpretati: nella galleria di un affollato centro commerciale della periferia milanese è stato aperto da poco un punto vendita che espone grandissimi contenitori di vino sfuso presso il quale ci si approvvigiona a prezzi di gran lunga inferiori a quelli esposti sugli scaffali dei vini imbottigliati. Sembra roba d’altri tempi, invece forse è proprio il segno di una modernità conflittuale con la quale ci si deve misurare a proposito di ricerca della qualità.

Quella qualità che sostengono di perseguire con ostinazione i sostenitori di una misura molto particolare, volta al contenimento della produzione di vino la quale, essendo superiore alla domanda effettiva, provoca in Europa l'accumulo di scorte. La misura, la cui adozione non è appoggiata da tutti i produttori, consiste nell’estirpazione dei vigneti considerati non più adeguatamente produttivi, o posseduti dagli agricoltori più anziani che preferiscono uscire dal settore ricevendo un contributo pubblico.

Vedono di buon occhio il provvedimento sia appunto i coltivatori “marginali”, autoproduttori o conferitori delle uve alle cantine, sia le aziende vinicole di dimensioni medio-grandi che pensano così di potersi sbarazzare di parte della concorrenza, quella portata a vendere ai prezzi più bassi. Essi sostengono la misura nella convinzione di poter poi spostare la domanda sulle fasce di prezzo superiori nonostante, data la negativa congiuntura, resti da vedere se un tal disegno può davvero realizzarsi, almeno a breve-medio termine.
 
Che non sia più tanto immediato il riscontro positivo sul consumatore puntando sulla qualità lo testimonia un altro campanellino d’allarme, il ridimensionamento del vino novello stando ai primi provvisori dati forniti dalla Confederazione italiana dell’agricoltura che stima la produzione in corso in contrazione del 25-30% rispetto al 2009. Il maggior picco produttivo del novello (18 milioni di bottiglie) fu raggiunto nel 2002. Da allora è stata una costante e continua flessione. Se però da forma di consumo modaiolo il novello si stesse trasformando in un prodotto più marcatamente distinto e dalla qualità intrinseca si potrebbe guardare la sua bottiglia come fosse mezza piena anziché mezza vuota. Il dubbio si chiarirà nelle prossime settimane, quando si saprà come effettivamente saranno andate le cose.

Fin qui l’attenzione s’è concentrata sull’Europa e in particolare su luci e ombre dei consumi italiani, zoccolo duro per chi produce e vende. Ma altrove la situazione, sempre per quanto riguarda i consumi d’alcolici, non è così problematica. La domanda nei paesi in via di sviluppo è anzi buona e chi ha puntato le sue carte sulla globalizzazione si strofina le mani. Un nome su tutti? Campari che nei primi 9 mesi del 2010 ha visto il suo giro d’affari salire a 794 milioni di euro, per un bel +14,1%.

La politica commerciale espansionistica che il gruppo ha adottato e perseguito è stata chiara, coerente e ha premiato gli azionisti perché quelli messi insieme con caparbia determinazione sono alcune tra le più celebri etichette esistenti al mondo, ben sostenute da campagne pubblicitarie insistenti ma non noiose. Così, alla fine, da un lato nelle aree a domanda crescente si è approfittato dell’onda e dall’altro, dove essa è più debole, ci si è messi al riparo di prodotti che nel locale pubblico di prestigio come nel bar di casa non possono mancare se si vuol bere bene e si vuol fare bella figura con gli amici.

Antonio Massa