Incredibile ma vero, mentre gli italiani e non solo loro s’apprestano a festeggiare il Natale stappando bottiglie d’Asti, all’interno del Consorzio che ne tutela immagine e qualità si litiga a colpi di carta bollata contro l’ipotesi di allargare la zona di produzione consentita al Comune di... Asti. Già, suona strano, ma proprio l’area stabilita per la coltivazione delle uve che danno luogo alla prestigiosa Docg dello spumante dolce per eccellenza non comprende il Comune di Asti.

Il disciplinare di produzione, che risale agli anni ’30, identifica come zone vocate un insieme di comuni delle province di Alessandria, Cuneo e Asti, ma non appunto il Comune della città. Pare che questo sia dovuto al fatto che in origine, negli anni ’30 appunto, nessuno vi coltivasse le uve Moscato (le uniche dalle quali si ricava l’Asti dopo aver spumantizzato il vino base), cosa che col passare del tempo è venuto in mente a qualcuno di fare, tanto che sarebbero una ventina oggi gli ettari dai quali s’è prodotto Asti recentemente.

Ma come, se non era consentito? Non era, ma lo è stato per un po’. Da quando, su richiesta degli interessati e in maniera forse troppo sbrigativa si mormora ora, il ministro delle Politiche Agricole del governo Prodi, Paolo De Castro, aveva concesso l’autorizzazione. Proprio da lì è partita la contestazione del Comune di Coazzolo e di una parte di Assomoscato, l’organizzazione che raccoglie 3mila viticoltori e che aderisce al Consorzio dell’Asti. Il Tar ha dato ragione al loro ricorso e così chi s’era messo a fare Asti ad Asti s’è dovuto fermare in attesa che la situazione si chiarisca.

Secondo alcuni chiarezza potrà essere fatta solo dopo l’atteso pronunciamento della Regione Piemonte, in base al quale dovrebbe poi decidere il Comitato vitivinicolo nazionale che fa capo al ministero delle Politiche Agricole e che ha l’ultima parola sulla definizione delle Doc e delle Docg. Secondo altri, invece, bisogna attendere il pronunciamento del Consiglio di Stato al quale è ricorso chi ha perso la causa intentata al Tar del Lazio dagli oppositori all'allargamento dell'area coltivabile a Moscato. Questi ultimi ritengono che nel Comune di Asti il Moscato non venga abbastanza buono da ricavarne Asti Docg e tanto meno Moscato d'Asti. Il Consiglio di Stato potrebbe pronunciarsi prima di Natale.

Chi appoggia l’estensione dell’area consentita al Comune di Asti sostiene che colmando il vuoto ci si premunirebbe dal subire penalizzazioni tipo quella sopportata dalla vitivinicoltura friulana con il caso del Tocai, il cui nome non può più essere usato in Italia in seguito alla battaglia legale vinta dall’Ungheria a vantaggio del suo Tocaj. E questo nonostante si tratti di un vino completamente diverso: giallo paglierino, da pasto e fermo l’italiano; ambrato, dolce e liquoroso quello ungherese.

In sostanza, si dice, se il Comune di Asti non venisse compreso nel disciplinare (nel 2009 sono state prodotte 70 milioni di bottiglie di Asti Docg), un domani un coltivatore potrebbe mettersi a farne uno lui registrandolo e impedendo ad altri di fare altrettanto. Sembra un po’ fantaenologia, eppure su questo si continua a litigare. A sentirsi danneggiati sono un buon numero di coltivatori che s'inerpicano nelle colline che formano il territorio più vocato. Secondo loro il terreno per lo più pianeggiante del Comune di Asti, sulla destra del fiume Tanaro, non ha i requisiti adatti qualitativamente parlando.
 
A.M.