di Luca Salomone

Il Senato si esprime favorevolmente sul divieto, in Italia, di produrre e consumare carni coltivate e sulla proibizione dell’uso, per alimenti non a base di carne (in altre parole quasi sempre vegetali) di nomi come, ‘salsiccia’, ‘polpetta’, ‘cotoletta' e via dicendo.

In realtà è stato fatto un vero 'polpettone', indigesto e confusivo, tra due cose che non hanno niente di comune, cioè la carne da laboratorio e il plant based e che avrebbero, invece, meritato una trattazione separata.

Ora i provvedimenti passano al vaglio della Camera dei deputati, per diventare legge.

Per quanto riguarda il cosiddetto ‘meat sounding’ i pareri in campo sono molto differenti.

Il presidente di Assica, l’associazione degli industriali delle carni e dei salumi, Pietro D’Angeli ritiene sicuramente molto apprezzabile una posizione che vieta l'uso di nomi carnei sui prodotti che non contengono carne: «Si tratta di una battaglia culturale e di buon senso per la corretta concorrenza fra operatori del settore alimentare. E poi, personalmente, non ho mai capito perché i prodotti cosiddetti plant based, che tengono tanto a distinguersi dalla carne per dieta, valori nutrizionali, persino impatto ambientale, finiscano sempre per proporsi al pubblico con i nomi degli alimenti da cui prendono le distanze».

Assica promette inoltre di adoperarsi, nei prossimi mesi, a livello europeo, per uniformare un quadro abbastanza incoerente e nel quale i prodotti vegetali che si ispirano al latte non devono rimandare, nei propri nomi, a una materia prima che non usano, mentre al 'meat sounding' questo è permesso.

Opposto il punto di vista di Unione italiana food, che rappresenta oggi 550 aziende alimentari, per un fatturato di 51 miliardi di euro, e più di 20 settori merceologici, come caffè, cereali, pasta, prodotti da forno, surgelati…

Secondo il Gruppo prodotti a base vegetale dell’associazione «i plant based sono di casa sulle tavole di oltre 20 milioni di italiani che li consumano regolarmente e che da oltre 30 anni sono abituati a chiamarli così. Dunque, è fuorviante cambiarne i nomi. Si tratta di consumatori che li hanno provati, apprezzati e che hanno deciso di inserirli nella loro dieta. Lo hanno fatto per esigenze di salute, per questioni etiche, per aumentare il consumo di vegetali, e per diverse altre ragioni, ben consapevoli di cosa sono fatti. Chi li sceglie legge bene le loro etichette e le valuta chiare, trasparenti e complete, sia sugli ingredienti, che sui valori nutrizionali. Allora perché questo intervento? E perché inserire l’emendamento in un Ddl che si occupa, in realtà, di cibo sintetico, con cui i nostri prodotti non hanno nulla in comune, né per caratteristiche, né per materie prime usate (i prodotti a base vegetale sono realizzati, appunto, solo con materie prime agricole di origine vegetale), né per lavorazione? Questo crea un grave danno ai consumatori, che ora saranno sì confusi».

Come risulta da un’analisi, commissionata in marzo da Unionfoood ad Astraricerche, il livello di consapevolezza sulla composizione dei prodotti a base vegetale è oggi molto alto: il 79,3% dei consumatori legge attentamente le etichette (percentuale che sale fino al 92% presso i più fedeli) e 8 su 10 le reputano ‘esplicite e chiare’, ‘facili e comprensibili’, ‘veritiere e non fuorvianti’.