Diventeremo un popolo di ubriaconi? La cosa è più che probabile, sia perché ormai il vino e la birra costano meno della benzina, sia perché uno dei passatempi preferiti del nostro Esecutivo sembra essere quello di accanirsi contro le bevande analcoliche, rischiando di generane indirettamente un aumento di prezzo, a sua volta destinato a scaricarsi sul consumatore, sulle aziende e sull’inflazione.

Ma andiamo per gradi: il Consiglio dei Ministri conclusosi verso la mezzanotte ha varato il cosiddetto decreto Balduzzi, un pacchettone di norme – molto discutibili - sulla Sanità. Fra i vari articoli si nota che salta, come da copione, la food tax sulle bibite con un certo contenuto di zuccheri, ma viene invece introdotta una nuova soglia per la quota di succo naturale di frutta in quelle preparazioni che vogliono appunto mettere al centro della propria immagine la frutta stessa. Si passa dal vecchio 12% all’attuale 20%. Questo non significa che molti prodotti già in vendita non possano più essere commercializzati, ma vuole dire, semplicemente che, fino alla soglia del 19%, non potranno più definirsi bevande di frutta, alla frutta e diciture similari (va a farsi benedire, pare, persino il nome “aranciata”).

Un vero colpo di genio, per vari motivi. Il primo, visto che il provvedimento era nell’aria da parecchio tempo, lo aveva già indicato Assobibe – l’associazione confindustriale che rappresenta gli operatori dei soft-drink – sottolineando in maggio, a proposito di alcune vicende inerenti appunto alle aranciate, che non aveva alcun senso fare aumentare oltre il 12% una soglia di contenuto in frutta che era già altissimo rispetto alla media Ue, attestata appena al 5%.

A questo punto, in attesa degli opportuni decreti attuativi, si pongono varie domande: come dovranno comportarsi i distributori con i prodotti importati, che rispondono a norme comunitarie, diverse dalla nostra? Cosa sarà della vecchia “aranciata”, quando non potrà più definirsi tale, a meno di non cambiare formulazione riversando a valle gli inevitabili costi sostenuti  per modificare i processi produttivi e acquistare maggiori quantitativi di materia prima di pregio? E come spiegare tutto questo al consumatore finale, senza ghettizzare prodotti che non potranno più vantare la propria ricetta e senza sostenere altre spese in termini di comunicazione e marketing?

C’è infine un aspetto ancora più deleterio: in questo modo si finisce per spingere la gente verso prodotti decisamente meno salubri, ma indenni da possibili rincari. E questo sarebbe l’articolo di un decreto sulla salute? Ma per favore: siamo veramente alla frutta, è il caso di dirlo.