E’ ormai scontro aperto tra l’associazione degli agricoltori e quella che raggruppa i principali retailer italiani. In un crescendo di accuse che ruotano intorno al sensibile tema dei prezzi dei prodotti agricoli applicati dalla grande distribuzione.

L’ultima “scaramuccia” è dell'altro ieri. In una nota diffusa dalla direzione generale di Roma, Coldiretti lamenta che «i prezzi dei prodotti agricoli nelle campagne sono crollati del 16%, ma sugli scaffali per i consumatori si sono verificati aumenti dell'1,9%, quasi quattro volte il valore medio dell'inflazione». Le ragioni di questa “controtendenza” – ha stigmatizzato il presidente di Coldiretti Sergio Marini – sono da ricercare nella presenza di «pesanti distorsioni nel passaggio degli alimenti dal campo alla tavola che colpiscono gli agricoltori e i consumatori».

Resta da capire di chi siano le responsabilità. Federdistribuzione – che in una pronta replica al vetriolo ha parlato di vere e proprie «calunnie» e di «demagogica voglia di ribalta» da parte di Coldiretti, rispedisce le accuse al mittente sostenendo che, se vi sono inefficienze, queste riguardano il sistema agroalimentare italiano.

Ora, che qualcosa non funzioni, appare abbastanza evidente se è vero - stando alle elaborazioni di Coldiretti su dati “sms consumatori” del Ministero delle politiche agricole – che dal campo alla tavola i prezzi aumentano del 495% per le carote, del 453% per le pesche, del 525% per la pasta e del 335% per il latte fresco. Ma di chi è la colpa? Difficile addossare tutta la responsabilità alla catene distributive. Le quali – va riconosciuto – si stanno impegnando con fatti concreti, non solo per ridurre le inefficienze logistiche e accorciare i passaggi della filiera, ma anche per trovare punti di accordo e di equilibrio con i produttori per salvaguardare il potere d’acquisto dei consumatori e, in ultima analisi, la redditività di tutti i protagonisti della filiera stessa.

Un esempio su tutti. E’ solo di pochi giorni fa un accordo raggiunto tra l’assessorato della regione Emilia Romagna, insieme ai produttori locali, e  Coop, Conad, Esselunga e Auchan, con l’obiettivo di incentivare il consumo di pesche e nettarine dell’Emilia-Romagna, il cui comparto risulta da qualche tempo in crisi, assicurando ai produttori una remunerazione più alta rispetto a quella attuale, senza incidere sul prezzo al consumo.

Non è per voler essere salomonici, ma l’impressione è che vi siano responsabilità da entrambe le parti. Da un lato, gli agricoltori farebbero meglio a guardare in casa propria e a trovare forme di aggregazione e associazionismo produttivi ancora più strette rispetto a quanto avvenga oggigiorno. Dove questo si è verificato, le cose vanno decisamente meglio e i motivi di lagnanza si sono sensibilmente ridotti.

Dall’altra, la distribuzione dovrebbe impegnarsi ancor più intensamente nell’attività di miglioramento dell’efficienza di filiera, pur riconoscendo che in alcuni casi il ruolo degli intermediari, ai fini logistici, risulta indispensabile. Coldiretti quindi, la smetta, di guardare la pagliuzza nell’occhio altrui e di sostenere un acritico protezionismo del made in Italy. E Federdistribuzione promuova un’ottimizzazione logistica ancora più intensa, specie nel comparto ortofrutticolo. Risparmiandoci, per favore (sia pure considerando l'impeto dialettico), la favola delle Centrali d’acquisto quali «strumento per contrastare la forza contrattuale dei grandi marchi di produttori, a tutto vantaggio dei consumatori».