«I margini della distribuzione moderna sono quelli che meno incidono sui prezzi alimentari». Federdistribuzione non potrà che gongolarsi per i risultati a cui è giunto uno studio di Nomisma presentato nei giorni scorsi a Milano in occasione della “Giornata Adm 2009”. Accusata sistematicamente da Coldiretti di essere la principale artefice dell’aumento dei prezzi al consumo, specie dei prodotti agricoli, la Gdo italiana esce invece dalla ricerca di Nomisma (quasi) priva di oggettive responsabilità sul fenomeno. Anzi, analogamente a quanto avviene per gli altri attori della filiera agroalimentare, ne viene dimostrata la modesta redditività. Ormai talmente scarsa che, in un periodo di rallentamento dei consumi come quello attuale, ciò sta creando a molte catene grosse difficoltà, con sempre più frequenti manchevolezze nel rispetto dei tempi di pagamento dei fornitori, tanto che i già tesi rapporti tra industria e distribuzione sono a un passo dalla rottura.

Un settore importante
L’indagine di Nomisma parte dalla constatazione che il commercio al dettaglio riveste un ruolo importante nell’economia del Belpaese. Nel 2008, grazie a un valore di 56,3 miliardi di euro, ha infatti assorbito il 4% del pil e il 7,4% dell’occupazione (1,9 milioni di addetti). Se a ciò si aggiunge l’indotto (dal settore immobiliare all’agricoltura, dall’industria alimentare al commercio all’ingrosso) i suddetti valori salgono rispettivamente al 7,2 e al 10,2%.

Gravoso il costo del lavoro
Rispetto ad altri comparti però - come l’industria o i servizi - la capacità di generare ricchezza da parte del commercio al dettaglio, specie quello alimentare, si è drasticamente ridotta negli ultimi anni. Tra il 1996 e il 2008 questa propensione è cresciuta di soli 7 punti percentuali, contro il 33% dell’industria e il 71% dei servizi. Ciò è in buona parte riconducibile alla forte crescita del lavoro dipendente (+34%) rispetto a quello autonomo (-24%) registrato nel commercio. In questo settore, in particolare, l’incidenza del costo del lavoro nel 1996 era del 28%. Nel 2008 è salita al 47%.

Un utile risicato
Per vederci più chiaro, Nomisma si è presa la briga di scomporre il valore della spesa alimentare andando a fare i conti in tasca alle aziende del settore agroalimentare. Ebbene, che cosa ne emerge? Che i prezzi alimentari sono imputabili agli utili delle imprese solo per una parte molto marginale: il 3% per l’esattezza. Per ogni 100 euro spesi, infatti, 54 risultano assorbiti dai costi interni di filiera (38 dal costo lavoro, 11 dal costo del capitale e 5 da quello dei finanziamenti). I costi esterni di filiera (mezzi tecnici agricoli, energia e utenze, packaging, trasporto e logistica e costi promozionali) pesano per 27 euro. Per imposte dirette e indirette se ne vanno altri 12 euro e 4 per l’import netto. L’utile di filiera si riduce così al 3%. E questo riguarda, in maniera più o meno marcata, tutti gli attori della filiera, a testimonianza dell’assenza di fenomeni speculativi.

Bassa marginalità per la Gdo
Scendendo nel dettaglio dell’analisi della marginalità, Nomisma ha scoperto che è proprio la distribuzione moderna a risultare fanalino di coda. Certo, si potrà obiettare: la distribuzione a libero servizio recupera redditività con i volumi. Ma relativamente alle vendite (Ros) la Gdo si ritaglia un misero 1,3%. Meglio va all’ingrosso alimentare (1,8%), al dettaglio alimentare (2,1%) e soprattutto alla ristorazione (3,2%) e all’industria alimentare (3,9%). Non molto diversi appaiono gli equilibri analizzando i risultati in termini di redditività sul capitale investito (Roi). Qui il libero servizio si ritrova il 4%, contro l’8,3% dell’industria alimentare, l’8,9% dell’ingrosso, il 9,6% del dettaglio tradizionale e il 12,1% della ristorazione.

La soluzione è la riduzione dei costi
Un eventuale risparmio sul prezzo finale per i consumatori, quindi, secondo Nomisma passa più da una riduzione dei costi che da quella degli utili. Qui di margini di miglioramento ve ne sono diversi. Sul fronte produttivo, per esempio, il fatturato medio delle aziende agricole e dell’industria alimentare italiane è nettamente inferiore a quello dei partner europei. E la polverizzazione della fase produttiva non aiuta. Vi è inoltre una rilevante dipendenza dall’estero nell’approvvigionamento di prodotti agricoli e alimentari. A livello di Gdo, emerge ancora una bassa concentrazione della fase distributiva e commerciale, con un’elevata numerosità di punti vendita per abitante rispetto ai partner europei e un’incidenza del 33% dei primi tre player della distribuzione moderna italiana sul fatturato totale, contro il 50% e oltre di altri paesi come Francia, Germania o Regno Unito.

Le zavorre esterne
Sempre secondo Nomisma, vi sono purtroppo anche fattori esterni che concorrono a rendere scarsamente competitive le imprese del nostro paese e poco economici i prezzi al consumo. Il forte deficit infrastrutturale nel sistema dei trasporti, sia su gomma che su rotaia, per esempio. Ma anche l’elevato prezzo dell’energia elettrica per uso industriale (superiore del 36% circa alla media comunitaria), senza contare l’Iva sui prodotti alimentari, che si colloca in una fascia medio-alta se paragonata alla media dei paesi europei. E’ soprattutto su questi ultimi fattori – a nostro avviso - che il comparto del largo consumo dovrebbe cercare di fare sentire maggiormente la propria voce. Intervenendo nelle sedi politiche e istituzionali a livello di vera e propria lobby, al pari di quanto viene fatto in altri comparti. Che magari pesano meno sulla ricchezza e l’economia del Paese.